Fondi pensione, gli 1,2 mln di non versanti e i rischi di una pianificazione presbite
di Marco Liera (*) - 16/06/2013
Come interpretare il fatto che su 5,8 milioni di iscritti ai fondi pensione 1,2 milioni non versano più contributi? E’ solo il risultato di una congiuntura avversa o anche di una pianificazione presbite?
Di solito, qualunque piano dovrebbe essere intrapreso per essere portato a compimento. D’altra parte, è meglio avere qualche risparmio in un piano pensionistico, anche se questo non è più alimentato (al netto di eventuali riprese future) che non averne per nulla, immaginando che quelle risorse se non fossero finite nella previdenza integrativa sarebbero state magari destinate a consumi voluttuari. Ma è un po’ sorprendente constatare che, come scrive la Covip nella sua Relazione Annuale presentata lunedì, “sono soprattutto le forme pensionistiche offerte da intermediari finanziari (fondi aperti e PIP) a totalizzare un ampio numero di non versanti (nel complesso, circa 750mila, per oltre la metà concentrati nei fondi aperti)”. Va ricordato che mentre i fondi pensione negoziali vengono sottoscritti dai lavoratori in assenza di una consulenza professionale (c’è solo una assistenza sindacale), i Pip e i fondi pensione aperti vengono collocati da reti bancarie, assicurative e di promotori finanziari con una procedura che prevede una adeguata spiegazione del prodotto e la conformità della tipologia selezionata (garantita, obbligazionaria, bilanciata e così via) alle caratteristiche e all’orizzonte temporale dei clienti. Anche se al momento non è prevista una profilazione del cliente come quella che è contemplata per il collocamento di strumenti finanziari (fondi comuni, bond, azioni e così via) in regime di adeguatezza, il valore aggiunto consulenziale che accompagna la decisione di aderire a Pip e fondi pensione aperti dovrebbe essere maggiore di quello erogato a fronte della sottoscrizione di un fondo negoziale. E quindi sarebbe logico attendersi una consapevolezza e una capacità di tenuta maggiore dei lavoratori che li scelgono, a meno di non accettare l’idea che alcune vendite di Pip e fondi pensione aperti siano state un po’ troppo “aggressive”.
Forse ci sarà stato anche questo, ma la ragione principale di questi stop ai versamenti è che i fondi pensione aperti e i Pip sono sottoscritti per poco meno della metà da lavoratori autonomi, che li finanziano interamente a proprio carico, non potendo contare – a differenza dei lavoratori dipendenti tipicamente aderenti ai fondi pensione negoziali - sul prelievo da Tfr e sul contributo del datore di lavoro. In sostanza, rinunciando a versare di tasca propria questi lavoratori non perdono nulla. E poi, come scrive la Covip, “al lavoratore iscritto su base individuale e a tali forme non è consentito il riscatto a seguito di dimissioni o licenziamento”. Questa maggiore illiquidità potrebbe spingere anche i dipendenti iscritti ai Pip e ai fondi pensione aperti a essere cauti nel proseguire i versamenti, in presenza di incertezza sul proprio futuro lavorativo. Specularmente, è più contenuta l’incidenza dei non versanti nei fondi negoziali (circa 200.000) e nei fondi preesistenti (circa 100.000), ai quali aderiscono solamente lavoratori dipendenti (quasi totalmente del settore privato). In totale, il 34% dei lavoratori autonomi iscritti a una qualunque forma pensionistica non versa più contributi, a fronte del 16% dei dipendenti del settore privato.
La Relazione Covip riconferma che il tasso di adesioni più alto alla previdenza complementare si registra tra le persone di età compresa tra i 45 e i 54 anni. Ciò è coerente con il fatto che sono queste – non quelle più giovani - le persone che possono permettersi di destinare risorse a questo obiettivo. Fare educazione previdenziale ai giovani è ragionevole viste le magre pensioni pubbliche che li aspettano, ma si rischia di abbaiare all’albero sbagliato. Occorre ricordarsi che essi hanno redditi nulli o bassi e incerti, e in quest’ultimo caso hanno altre priorità da finanziare (protezione capitale umano, famiglia, casa). Se ne avranno la possibilità, potranno cominciare a pensare alla pensione di scorta dopo i 40 anni, quando avranno ancora a disposizione un orizzonte temporale congruo per accumulare risorse allo scopo, visto che dovranno realisticamente lavorare fino a 70 anni o giù di lì. E avranno anche capito se il loro futuro sarà in Italia o altrove.
(*) Pubblicato sul Sole-24 Ore del 16 giugno 2013
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